lunedì 14 febbraio 2005

Un anno senza Pantani

E se a Madonna di Campiglio tutto fosse filato liscio?
E se la stampa non lo avesse massacrato per tutta l’estate del ‘99?
E se i suoi “veri” amici gli fossero stati vicini sin dalle prime difficoltà?
E se i manager e la squadra avesse parlato subito della sua tossicodipendenza?
E se Don Gelmini fosse riuscito a portarlo con sé in Bolivia, lontano dai riflettori, dagli scandali e dalla solitudine interiore?
E se i giocatori di basket del Rimini si fossero accorti di qualcosa passando davanti alla sua camera in cui si era rinchiuso negli ultimi giorni?
E se…
Marco Pantani ci ha lasciati un anno fa. Per gli sportivi e soprattutto per i tifosi il giorno di San Valentino non sarà più lo stesso. La festa degli innamorati sarà il ricordo di un giorno triste e freddo in cui se ne è andata una persona che ci aveva fatto penare per le sue sofferenze, sorridere per la sua simpatia contagiosa, emozionare per le sue imprese, saltare sulla sedia mentre lui saltava gli avversati come birilli. Marco Pantani ci ha fatto piangere per una fine che in pochi si aspettavano e che nessuno pensava così solitaria e squallida.
Il campione è ancora nei cuori della gente. Il ciclismo si sta lentamente risollevando dopo anni bui di doping e sospetti. In un anno sono cambiate molte cose: nuove leve delle due ruote hanno entusiasmato le folle, riportando le menti scosse agli splendori alpini del Pirata. Anche dall’alto delle dirigenze ci si è accorti che qualcosa non andava. E allora via immediatamente con il Pro Tour, tutto cambia. Per evitare che il doping e i media fagocitino qualche altro campione è stata richiesta alle squadre maggiore serietà in tutti i campi, dalla finanza alle sponsorizzazioni, dallo sport alla salute, per tutelare maggiormente il vero anello debole della catena: i corridori. Una certezza delle pene, un’equità nel trattamento sono i punti fermi delle nuove regole in materia di giustizia sportiva e controlli antidoping. Per evitare, per quanto possibile, la persecuzione degli uni e l’assoluzione completa degli altri.
Ma, anche con questi grossi cambiamenti, tanto generazionali da lasciare spiazzati anche gli addetti ai lavori, il ciclismo tra la gente è ancora sinonimo di Pantani. Quel Marco che si alza sui pedali, getta via il cappellino e scatta in faccia a tutto e a tutti. Quel Pirata sfortunato, simbolo suo malgrado della possibilità di rialzarsi dopo le cadute e dopo tanta sfortuna. Quel Pantani di tante sfide, soprattutto contro sé stesso, senza pace sino a dieci metri dopo il traguardo.
Quel Pantani che si sentiva un perseguitato. Quella sua mentalità da campione non gli aveva mai permesso di capire com’era possibile passare da idolo di tutti a feccia della società nell’arco di un solo giorno. Tutti d’improvviso gli hanno voltato le spalle, chi lo acclamava gli si è scagliato contro con una foga doppia rispetto a prima. E gli amici, quelli divenuti tali grazie più al denaro che all’affetto, lo hanno trascinato nel baratro della droga fino a quando, solo e stanco, non ne sarebbe più uscito. Hanno messo il dito nella piaga anche le famose sette procure. Guariniello ha iniziato tutto, per poi accorgersi che l’imputato Pantani Marco era accusato di un reato non perseguibile. Successivamente, per protagonismo più o meno esasperato, altri sei procuratori si sono interessati della vita sportiva dell’imputato Pantani.
Cos’aveva Pantani di peggio rispetto ad un altro collega trovato con ematocrito fuori norma lo dovrebbero spiegare i media. È stato detto e scritto innumerevoli volte che Marco è morto a Madonna di Campiglio: divenuta nei mesi successivi a quel 14 febbraio uno dei cavalli di battaglia di giornali e tv, ha perso però ogni significato. Si può perlomeno dubitare di questa frase inflazionata: basti pensare che ogni volta che Pantani tentava di rialzarsi, una nuova tegola si abbatteva sulla sua mente fragile. Prima i giornalisti, che facevano buon viso davanti a lui, ma lo tradivano puntualmente nei loro pezzi. Poi le procure e i rispettivi mandati di comparizione. Poi i colleghi che, nel pieno spirito agonistico, non potevano rendersi conto della fragilità emotiva in cui era caduto il Pirata, trascinato dalle sostanze. E così Armstrong lo aveva attaccato senza pietà dopo la vittoria del Mont Ventoux e Simoni lo aveva rincorso, con Frigo (che sta ancora pagando pegno con un rimorso che va oltre le vere colpe), alla cascata del Toce, tarpandogli le ali negli unici momenti in cui si era sentito nuovamente un corridore a tutti gli effetti.
Così, in un pellegrinaggio continuo lungo lo stivale per ricrearsi un’autostima che tutti, all’improvviso, sembravano volergli distruggere, l’imputato Pantani è riuscito a perdere anche le uniche certezze che gli erano rimaste: la fiducia della fidanzata Christina e la comprensione totale e incondizionata della famiglia che, accumulata la tensione di mesi di angoscia, si è defilata. Perdere quelli che per lui erano sempre stato i due capisaldi nella propria esistenza è forse stata l’ultima mazzata.
E così ci ha lasciati, solo in un albergo. La morte di un trentaquattrenne è un avvenimento di per sé triste, ma lo è stato ancora di più per come è avvenuto. La solitudine, rimarcata da giornalisti e giornalai, non è stato l’unico elemento che ha connotato di malinconia questa tragica fine. Il vero elemento tragico è stata la sordità del malato (perché di questo si trattava) agli aiuti esterni. Molte mani amiche gli erano vicine, tese verso di lui per aiutarlo. Ma lui, una ad una, le ha rifiutate tutte.
Ciao Marco.
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Pubblicato anche su ciclonews.com

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